giovedì 22 novembre 2007

Fecondare l'oblio del quotidiano

appunti e incitamenti dalle opere di Amanda Chiarucci
Le icone sono quadri, oggetti devozionali, tipici dell’arte bizantina, russa e balcanica, in esse è dipinta o scolpita un’immagine sacra, spesso la Vergine con bambino o i santi. Il ciclo delle madonne, realizzato da Amanda - anche per motivi personali - si richiama fortemente a questa tradizione iconografica, trascendendone il contenuto religioso costituito e rifacendosi a una costellazione di significati intimi e personali. Passeggiando per le vie di paesi del Centro e del Sud Italia, spesso mi è capitato di rimanere incantata di fronte a certi ingenui altarini, luoghi di culto sempre pronti ad accogliere un piccolo gesto di devozione come una preghiera, un fiore, l’accensione di un lume. Le edicole votive, tabernacoli, i santuari portatili come le icone da viaggio o i tappeti destinati alla preghiera sono emblemi di una religiosità popolare commovente, che le madonne di Amanda evocano. Nel suo lavoro la ricerca e la domanda sul proprio esserci è centrale, si traduce in una sorta di rituale per definire la propria identità. Il rituale è consistito nella costruzione di piccoli corredi devozionali che venivano poi montati all’interno di una macchina per foto tessere. La meticolosa attenzione con cui Amanda creava e allestiva quelle scenografie, ricordava il gesto con cui i credenti sistemano i fiori e le candele nelle nicchie dedicate al santo patrono. Un gesto pio e pagano insieme.
Le scenografie diventavano teatrini barocchi, altarini elevati al proprio io, autoritratti per invocare i propri lari, quelli che un tempo erano considerati gli spiriti protettori della casa. Ma cos’è dunque la casa? Forse, la definizione di un perimetro di significati.
Io credo che con questo lavoro Amanda si sia aperta alla ricerca di una simbologia che fosse allo stesso tempo privata e universale. Le sue madonne sono madri protettrici di simboli e qualità insite nel femminile. Immagini rituali che affondano le radici nell’archetipo della dea madre, fondatrice e creatrice del mondo e della vita e quindi di senso. Fecondatrice di significato, vergine che si partorisce, alla ricerca di un’identità satura di valori. Il tema della madre, intesa come protettrice del simbolico, permette ad Amanda di mettere al centro il proprio vissuto, celebrandolo e cercando ciò che in esso può salvare.
Da qui nasce il ciclo delle madonne con bambino: la madonna delle officine come avventura della creazione libera e audace, la madonna della luce come simbolo della vita allo stato nascente, la madonna delle rose come l’aprirsi gratuito dei sensi, la madonna della croce come simbolo del dolore e della cura etc. Simboli presi dal quotidiano e dai sogni, dall’esperienza e dalla storia familiare, dal mondo reale e da quello visionario, dettato dall’inconscio. Tra gioco e ironia, verità e memoria, il ciclo delle Madonne parla della necessità di creare un ordine interiore che da soggettivo si faccia universale. Da qui forse l’esigenza di coinvolgere altre donne nel progetto.
L’icona, in nome della sua ripetibilità, viene impiegata come moltiplicatore di simboli. Attraverso di essa, ci si può specchiare in una molteplicità di ritratti, fino a creare un pantheon di significati in grado di contenere gli opposti: la paura e la luce, il dolore e la fecondità, la malinconia e l’avventura del fare. Il rito dell’artista consiste nel fecondare il proprio mondo interiore e quello delle altre donne. Ogni madonna tiene con sé ciò che ha di più sacro, una realtà da proteggere, una verità da raccontare. La serie di ritratti femminili suggerisce il tentativo di ritessere un ordine simbolico sempre in bilico tra il sacro e il profano, tra la verità e il travestimento, tra l’autobiografismo viscerale alla Frida Khalo e l’ironia dissacrante alla Enrico Baj. Una mappa ideale per raccontare il proprio sé, ma allo stesso tempo per smentirlo, dissacrarlo, giocare a plasmarlo nell’infinita cerimonia delle metamorfosi fino a sfiorare il kitsch. Nel tentativo di dominare la realtà, la sua eccentricità e sovrabbondanza di segni ci può travolgere. Ci sentiamo presi da quest’eccesso di segni, che forse non rimandano ad altro che a se stessi. Il kitsch, in questo contesto, forse può rappresentare una possibilità importante, riuscendo ad esprimere la ricchezza del quotidiano, arrivando a tradurre in immagine le contraddizioni, le dissonanze della nostra epoca e della sua cultura, priva di canoni e riferimenti stabili. Può esprimere una ricerca di identità, una chiave di lettura del mondo, aperto agli apporti che vengono dal basso, dal popolare, dal quotidiano. L’impiego di oggetti artificiali e posticci come le bambole, i fiori finti, i fondali di carta stagnola sono da una parte gli indizi di un’epoca che non permette alcuna trascendenza, né verso la conoscenza del sé e quindi degli archetipi universali, né verso alcun presentimento del mistero. D’altra parte questi oggetti e materiali, ricettacoli di memorie, evocano però un mondo umile, un’estetica popolare che a volte rasenta il cattivo gusto, ma che sa indubbiamente tenere vivo il rapporto col sentimento del sacro, con quel perimetro di significati che rende vivibile il mondo come casa.





Marmo

Sulla poesia di Silvia Bre

La nuova raccolta di Silvia Bre si intitola Marmo, il riferimento è a una materia dura, fredda, eppure perfetta nel suo biancore. Una materia che chiama a un confronto intrepido e che rischia in ogni momento di vincere la nostra forza. La lingua è marmo, materiale meraviglioso, da scalpellare duramente, per poi magari accontentarsi di una forma abbozzata, di una figura incompiuta. Il pericolo insito nell’atto dello scolpire la lingua è sempre quello di fallire, di cedere alla sua forza incommensurabile. Nella poesia di Silvia Bre la lingua non è un possesso sicuro, ma un continuo tenersi in contatto con ciò che ci supera in profondità e grandezza. Come se ci fosse un abisso da catturare all’amo o un immenso cielo da contenere e le parole a volte potessero deludere in questa ricognizione. L’autrice vuole tendersi fino toccare il mistero delle cose, “il disegno d’astri” che sta di scorta al nostro andare, ma ammette la possibilità che questo si sottragga al nostro sguardo e che la parola possa arrivare dopo, come la luce di stelle lontane che tardano ad illuminare la terra. Ma la promessa di un senso, suggerita dalle stelle, la fede nella poesia come “suono che tiene unito l’universo” non viene mai meno, non viene meno l’attesa dell’ “onda che sale nelle nostre menti/le stringe insieme in un respiro solo/come fosse per sempre”. Ed è proprio lì che la poesia si vorrebbe accasare, nell’abbraccio stretto alle cose, alla loro promessa d’incanto, che suggerisce la trama di un ordine, di un’unità cui apparteniamo: “mentre le api, i filari dell’uva, il caldo/i ciuffi di basilico, gli sguardi/i quattro girasoli e il pensare, i moscerini, l’aria di menta, tutto/se ne va dritto a sfarsi verso l’alto/noi intanto ci lasciamo stare/sotto l’ulivo più vecchio dell’orto- /corpi, per trattenere quell’incanto”. L’incanto dunque, il senso di stupore, cui solo la parola poetica ci può ricondurre, la parola cioè detta per ringraziare in un’atmosfera di cauta gioia, quando cogliamo in noi un’apertura nei confronti di ciò che esiste: “forse la nostra arte vera/è solo misericordia del pensiero/per tutta la materia/che se ne sta buona dentro di sé/dentro una forma”. La parola è dunque necessaria, anche se insufficiente, è l’aria che respiriamo, il cielo che contempliamo, le stelle nella loro “distanza siderale”, distanza che il poeta si sforza di colmare attraverso il suo volo. L’aquila, il suo doppio, è il vedere impersonale della poesia, capace di raddoppiare i punti di fuoco, di gettare uno sguardo dal una dimensione vasta. Il suo volo concentrico ricorda il movimento della poesia, che coglie il senso per successive approssimazioni, muovendo alla ricerca del suono esatto, della parola adeguata al sentire. “Un moto che ripete e che compone” è quello della scrittura che torna su se stessa per approfondirsi, “senza mirare a nulla che non sia/sé stessa più profondamente”.
Il libro si chiude con un poemetto Sempre perdendosi che sa dire intensamente questa malattia della voce. Sebastiano, figura dell’iconografia sacra, viene qui rappresentato come uomo, semplice voce sempre sul punto di naufragare. La fine della voce, per gran parte del poemetto, viene avvertita come una maledizione, che però non si avvera. La paura del silenzio, fa si che le parole diventino necessarie: “poso parole ignote/nella loro corrente”. E qui il perdersi coincide con un atto pieno di pietà: “mi perdo/per un’arte che raduna/e rallenta ogni gesto in una forma”, il tentativo di riunire ciò che si perde in frammenti, di dare consistenza al pensiero, ripetendo il gesto originario degli antenati di Uruk, che hanno fermato il tempo imprimendo i primi segni nell’argilla.