domenica 8 agosto 2010

La bambina e il coniglio



La bambina ed il coniglio si guardarono stupiti, erano appena naufragati in un’onda di colore. Dopo essersi scrollati di dosso le ultime goccioline di pittura si studiarono curiosi. La bambina era molto contenta del suo vestito celeste, e quel tocco di rossetto sulle labbra la faceva apparire più grande. Sui suoi capelli era rimasta una striscia di blu elettrico che le donava un’aria da fata turchina. Il coniglio, poi, non poteva desiderare un manto più elegante, bianco come la neve. Le sue orecchie come radar si tendevano per l’emozione, cercava di sentire se fosse in arrivo un altro tsunami di colore. Ma da dove erano arrivati fin qui? A cavallo di un pennello, guidato dalla mano del signor Toccafondo? A dire il vero no, loro prima erano prigionieri di una pagina ingiallita, scolorita dal tempo, che il signor Toccafondo aveva ritrovato in un vecchio libro sonnecchiante in soffitta. Alice in wonderland si chiamava. Alice nel paese delle meraviglie. Una storia di quasi un secolo fa, piena di giochi e trasformazioni. Così, anche lui cominciò a giocare. Non poteva sopportare di veder sbiadire una povera bambina e un coniglio tanto simpatico. È stato così che nel giro di pochi minuti i due si ritrovarono con un vestito nuovo di zecca e una storia da inventare da capo. Tutto merito del signor Toccafondo! Ma chi è- vi chiederete- questo signore dal nome tanto bizzarro?! Si dice sia un caso molto raro di adulto rimasto ragazzo. La sua mente somiglia a una tavolozza piena di colori, nella quale i pensieri nuotano felicemente come pesci nell’acqua di mare. Toccafondo è un artista pescatore innamorato delle sirene. Ogni volta che ne sente il richiamo si tuffa nell’oceano dei colori, per afferrarne il segreto. Da quel tuffo si scatena l’onda che infuria nell’immaginazione e sommerge di colore vecchie foto sbiadite, fotogrammi di film d’altri tempi.

Così era accaduto anche a loro. La bambina e il coniglio sapevano di non trovarsi lì per caso, ma per effetto di una corrente misteriosa che lega i colori alle profondità del mare. L’unica cosa certa è che adesso entrambi si trovavano in mezzo a una distesa color lampone. La bambina provò a leccarla, ma accidenti!, non era di gelato. Forse era un cielo al tramonto! un campo di fiori di malva! o il fondale dipinto di un cartone animato? Dove si trovavano? Non sapevano. Ma era bello così, scoprirlo un po’ per volta.
“Come ti chiami?” chiese la bambina.
“Non posso saperlo, sono appena arrivato. Se vuoi puoi deciderlo tu!” rispose il coniglio.
“Bene, allora ti chiamerai Bianconiglio”, disse “tu puoi chiamarmi Celeste, è il nome che più mi si addice, che ne pensi?”
“Penso, penso che è perfetto!” disse Bianconiglio.
“Ma che cos’hai lì dietro!” esclamò Celeste, puntando il dito dietro la schiena del suo amico.
“È la mia ombra, qualcuno deve avermela disegnata di fresco…” affermò Bianconiglio con orgoglio.
“A che cosa serve?”
“Forse per rinfrescarsi nelle giornate di sole o per riposarsi quando si ha voglia di dormire… deve essere una specie di tana per conigli!”.
Celeste da sempre aveva creduto che l’ombra fosse la sentinella delle persone, la guardiana delle anime che non le fa mai invecchiare. Mentre i due formulavano le loro ipotesi, l’ombra cominciò a vibrare, poi si staccò leggermente dal suolo, finché prese quota e si mise a volare. Bianconiglio la osservava incredulo, mentre si librava in aria come un palloncino. Poi successe una cosa davvero stupefacente: l’ombra si sbriciolò, liberando uno sciame di farfalle nere, una delle quali si posò sulla spalla di Celeste e la trascinò in su verso il cielo. La bambina non credeva ai suoi occhi, visto dall’alto il mondo sembrava un immenso giardino fiorito con steli di lavanda, cascate di fiori di lillà e papaveri dondolati dal vento. Bianconiglio, intanto, rimasto senza la sua ombra, si sciolse al sole e si trasformò prima in un grandissimo innaffiatoio e poi in un campo di margherite. Quando Celeste atterrò nel bel mezzo del campo, colse una margherita e quella si trasformò di nuovo in un coniglio bianco, ma questa volta vestito in modo molto elegante. Giacca e cravattino e un cappello a cilindro in testa; a guardarlo bene era un innaffiatoio rovesciato. Fu così che Celeste e Bianconiglio si ritrovarono. Entrambi avevano capito che l’ombra altro non era che l’anima delle cose che si trasformano di continuo l’una nell’altra proprio come succede nei cartoni animati. E chi, se non il signor Toccafondo, poteva essere l’autore di tutto questo?

Pubblicato su Dada anno IV n°14 aprile-giugno 2009

venerdì 6 agosto 2010

Come carne elementare



Recensione a Serie del ritorno di Stefano Massari – edizione La Vita Felice, Milano, 2009

Che cos’è la morte? È quando qualcuno smette di vivere.
E quando una persona smette di vivere? Quando uno è vecchio oppure è molto malato. (…)
Tutti devono morire? Si.
Veramente tutti? Sì. Tutti devono morire.
Anche tu? Si, anch’io.
Anch’io? Si, anche tu, ma tra molto tempo. Per noi c’è ancora molto tempo.
E nessuno può fare nulla per evitarlo? Deve succedere? Sì, ma tra molto tempo.
Questo è un intenso dialogo tratto da Il nastro bianco, l’ultimo film di Michael Haneke, acclamato quest’anno a Cannes come vincitore. Un dialogo sulla morte e sul tempo tra un bambino e una giovane donna. La scoperta della morte fisica da parte di un bambino, della sua necessità porta con sé tutta la tragicità della condizione umana. Siamo tutti bambini, disorientati e inermi, di fronte a un evento così assoluto e ineluttabile. Queste parole le ho immediatamente associate all’ultimo libro di Stefano Massari La serie del ritorno. Un libro febbrile e crudo che attraversa la morte, la sua attesa, percuotendo le corde del dolore. La serie del ritorno è appunto una serie, tenta di stabilire un ordine, una successione per sconfiggere il caos, l’entropia che la morte porta con sé. I titoli dei nove capitoli, in cui è suddivisa la raccolta, rimandano a un tempo misurato con la precisione degli orologi digitali. Si apre con 00.00, un’ora zero, un inizio che potrebbe essere collocato in qualsiasi momento di ogni esistenza. La serie poi continua in una sorta di time code, una sequenza di cifre temporali che si svolge nell’arco di ventiquattro ore. Una sorta di conto alla rovescia. La scala delle ore scandisce la risalita del tempo verso la fine, ma anche verso un nuovo inizio. Un’iniziazione alla vita che passa attraverso il fuoco, che tutto arde, della morte. Nel viaggio verso una fine annunciata si dispiega infatti la tensione massima alla vita. Come in un paradosso la vita si impenna e grida vicino alla soglia. A chi resta tocca il compito di sincronizzare il tempo interiore alla realtà, allo scivolare del corpo nell’addio (“…sull’asse animale di questo urto incessante addio”). Il corpo e la sua cura sono il centro di quest’avventura tutta umana. Nella danza feroce tra l’essere e il nulla si ustiona la sua carne: “…ogni corpo che nasce è alleanza/ ogni corpo che muore è obbedienza”)
Un libro, quello di Stefano Massari, dove “la parola è tempestosa. Chiede, invoca, comanda, crolla” afferma Milo De Angelis nella prefazione, dove avviene un’apocalisse della carne e si combatte la tentazione del pudore, del non dire. La parola avviene qui secondo un ritmo percussivo dettato dall’urgenza di una tragedia incombente. Un libro-poema, dove il testo si dispone in senso orizzontale, aprendo varchi al bianco degli spazi tipografici, che dettano il ritmo di un respiro spezzato. La poesia qui fa perno sul ritmo, è parola che prende forma nel respiro di un corpo che si fa voce. Voce che entra nella stortura del destino umano sempre in bilico tra l’ insurrezione e l’obbedienza perché “sono l’obbedienza del dolore alleata cieca ai vivi benedetta/ da chi muore senza storia senza cura senza prove”. La parola è pulsazione, in cui si concentra l’urto tra il sentire e la realtà. Qui si narra della lotta e del senso d’abbandono, del cedimento infine alla legge del corpo e della natura: “la morte che dovevi diventare”, “La morte …che ti scavavi tra le gambe lungo l’arteria femorale quando mentire era salvare non avevamo altro”. Si tenta di dare forma al dolore, di cucire la ferita aperta, “tutta la mia paura muta trattenuta nella gola cieca senza cura/ inchiodata al cerchio della perdita”. Si va in cerca della guarigione, di una qualche forma di salvezza, dando spazio al giuramento d’amore: “dovevamo essere interi . tu ricordi?/ Dicevi mangia con me parla con me tienimi aperta lentamente/dammi il tuo gesto pulito il tuo riposo interamente”. Si va in cerca di un ritorno alla vita: “io troppo tardi sento che dovrei tornare/ tornare ancora sento che dovrei soltanto chiedere perdono alla vita”