domenica 21 dicembre 2008

Florilegio




La radice etimologica di preghiera è la stessa della parola precario, che in latino voleva dire ottenuto per mezzo della preghiera. Qualcosa che non dura sempre, ma soltanto finché lo vuole il concedente. Per estensione precario diventa ciò che ha poca durata, che è temporaneo.
Questa serie di piccole preghiere laiche la chiamo provvisoriamente Florilegio, perché non c’è nulla a mio avviso che simboleggi meglio la precarietà, di queste magnifiche ed effimere apparizioni naturali che sono i fiori. Ogni fiore risponde a una chiamata, come le cose che amiamo o che desideriamo fino in fondo. L’ottenere risposta dipende dalla forza della chiamata. La gratuità, il nonsense con cui la natura si comporta provoca in noi una ferita, che solo la natura stessa forse potrà ricucire.

I.
Fiore dei giacimenti d’amore
delle miniere di pietà
trivella il nostro cuore
àprivi immense cavità
aiutaci a trovare il guado
a levigare il fondo.
Rendi, presto,
alla parola il suo polline.


II.
(a mio padre)
Fiore della perdita
inconsolabile
ci hai chiuso nella sillaba
muta
che non canta
hai puntato lo stelo
nell’aldilà.
Adesso inventa le chiavi
enumera le stelle
fino allo schianto
fai entrare il canto
nelle particelle.

III.
Fiore delle colonne
che sostengono il mondo
piega il tuo stelo
calma la corsa degli atomi
puntella
la traballante costola
degli umani.
In pulsar e fili
d’erba
mostra la tua luce.


IV.
Fiore del sì e cosissia
stringi tra le labbra
un sogno
non montare gli ormeggi
spingimi in mare aperto
offri il tuo lato più audace
fruga nel sangue
e libera il suo galoppo.
Assegna alla realtà
il suo fuoco.

V.
Fiore delle guerre
del profitto sicuro
non dare frutto
stai fiore per sempre.

VI.
Fiore delle trasparenze
Degli occhi ospitali
Dei volti senza guerra
Apri la tua mano
Sollèvaci
Fai terrazze di luce
Sulla terra.
Cresci la pianta dell’armistizio
tra gli umani.


VII.
Fiore dell’azzurro cielo
Di Giotto
Del cielo a stelle fisse
Contempla il mondo
Scommetti su di noi
Aggiungi pietà
Al feroce abisso.
Allattaci, cielo.

VIII.
Fiore degli origami
Nascosto tra le pieghe
Nel chiaroscuro dei rami
Accucciati lì
Piccola barca
Nel tumulto dell’acqua.
Metti radici nell’andare
Germogli di pensiero
Rampicante
Salgono fino a te.

IX.
Fiore degli occhi amari
Che hanno cattivi risvegli
Sfiora le palpebre
Soffia via le antiche
Burrasche.
Sciogli i nodi
Ricama le stanze.


X.
Fiore scoglio di terra
Su cui le onde
Si frangono.
Fatti scudo
ai miei maremoti
incatena la sete
al suolo
tieni salde le mie ali
ai miei naufragi
fatti porto
accostami
accasami
mio sogno minerale.

mercoledì 10 dicembre 2008

Martina
Storia di Vanessa Sorrentino
Illustrazioni di Carlotta Costanzi

Martina era una bambina grande come un puntino.
Era così piccina che facilmente si perdeva.
Una volta cascò dentro al taschino del grembiule della mamma.
“Martina! Martina mia, dove sei finita?”
“Sono quaggiù mamma, dentro al tuo taschino!”.
“Ah eccoti” la mamma la ripescò tutta sporca di farina.



Un giorno Martina si infilò in cucina, voleva giocare con le stoviglie.
Saltò dentro un bicchiere, si dondolò a cavalcioni sul manico di un cucchiaio, scivolò nello scolapiatti, altalenò nella conca dei mestoli appesi a sgocciolare, poi per sbaglio cadde nella zuccheriera e si mescolò ai puntini dello zucchero.


La mamma la cercava, la cercava anche il suo papà, per non parlare del suo gatto che annusava dappertutto. Poi per fortuna la trovarono, perché era un po’ più scura dei granelli di zucchero.
Un’altra volta ci mancò poco, che la mamma la scuotesse via con le briciole della tovaglia. “Ehi mamma! Mamma!” urlava Martina, saltando di qua e di là per farsi vedere “ci sono io qui in mezzo!”. Quella volta la mamma si spaventò molto.
Chiamò il papà in salotto e gli parlò: “dobbiamo al più presto prendere dei provvedimenti, non si può andare avanti così! Se la bambina non cresce, rischieremo di smarrirla da qualche parte!”.


Il giorno dopo la mamma portò Martina da un dottore.
“Signor dottore,” gli disse “il nostro è un caso davvero strano. La nostra bambina è nata piccola come un puntino e da quel giorno non è più cresciuta di un centimetro. È così minuscola, che ci manca poco che il gatto la scambi per la sua pallina. Ci dica, che cosa possiamo fare?”, gli chiese con le lacrime agli occhi.
Il signor dottore aveva un’aria mansueta, gli occhi piccolissimi si vedevano appena dietro le lenti spesse degli occhiali, ma sembravano sorridere. Si avvicinò con delicatezza alla bambina, la sollevò con due dita e la scrutò ben bene da tutti i lati, mettendo insieme un’espressione molto concentrata,

poi all’improvviso sbottò: “Ci sono! La vostra bambina non è una bambina!”
“Che intende dire?!” esclamò la mamma in tono preoccupato.
“Non vi siete accorti, la vostra bambina è un seme e per la precisione un seme di rosa!”
La mamma spalancò occhi e bocca allo stesso tempo.
Il dottore proseguì: “Se voi la innaffierete tre volte al giorno, vedrete, crescerà forte e rigogliosa”. Così la mamma ripose Martina nella sua scatolina, che serviva per i grandi spostamenti e la riportò a casa. Quando furono in cucina, la posò su un piattino e le versò un po’ d’acqua addosso. “Hi,hi,hi!” Martina fece una risatina,


tutta quell’acqua fresca le faceva il solletico.
Così da quel giorno, ogni giorno la mamma faceva una doccia fresca alla sua bambina.
E fu così che in primavera Martina gettò le sue prime foglioline.



Poi al posto della testa spuntò un piccolo bocciolo rosso. Quel giorno la mamma capì che era ora di trapiantarla in giardino. Pianse un pochino, ma in fondo era felice per la sua bambina. In giardino Martina aveva tutto lo spazio per crescere in lungo e in largo. E fu così che con un po’ di pioggerella d’agosto e qualche linea di sole a zig zag, nel giro di un’estate, Martina divenne una
bellissima rosa.

Vicino a lei spuntarono tante roselline. La mamma fu così contenta di vedere la sua bambina in compagnia di tante amiche, che cucì per ognuna delle sue rose un cappottino bianco, per proteggerle dal freddo dell’inverno.