lunedì 17 novembre 2014



Con lievi mani di Vanessa Sorrentino
Nel gemere, la santa bambina/ spezza il cristallo delle coppe./La ruota affila coltelli/ e uncini di curva acuta./Un flotto di vene verdi/ sboccia dalla sua gola./Per terra, ormai senza guida,/soltanto le sue mani tagliate/ che ancora possono incrociarsi/in tenue preghiera decapitata. 
Federico Garcia Lorca


Con lievi mani, Luca racconta, nella sua ultima opera, il martirio della santa più amata di Spagna. Il tenero fiore di Merida, bianco d’innocenza e rosso di sangue. Il martirio di Santa Eulalia avvenne durante la persecuzione dei cristiani con Diocleziano. La santa bambina, a soli tredici anni, sfidò i tribunali romani, pronunciando la bella parola, credo, che suonò ai persecutori come bestemmia. L'adolescente fu sottoposta così alle più crudeli torture. Il suo corpo fu straziato, il seno mutilato, gli arti amputati. Morendo, dal rosso nido della sua bocca s'alzò in volo una colomba bianca. Bianca come lo spazio, che Luca apre nel corpo di Eulalia. Bianca come il silenzio che organicamente circonda il potere di quella sola parola: credo. Il corpo di Eulalia si lascia abitare dallo spazio. Uno spazio ricco d’anima per aver sfidato il potere in nome della fede. Il martirio della santa sembra reagire, come cartina di tornasole, allo spirito del nostro tempo, apatico e indifferente. La sua azione afferma che credere è anche bruciare d’amore per un ideale. Con braccia dispiegate d’uccello, l’Eulalia di Luca, lascia trasparire la traiettoria di un volo. La tensione di un corpo, inchiodato alla dimensione terrena, ma che sta per spiccare il volo verso un cielo ideale, capace di trascendere la violenza dell’oppressore (la realtà?). Nella tensione tra pieno e vuoto, tra carne e spirito – e la stessa tecnica del calco, che Luca utilizza, lo sottoinea-  si gioca la scommessa umana, l’azzardo di un corpo, ridotto a frammenti, che aspira a toccare la preziosa unità nell’invisibile.


mercoledì 10 ottobre 2012

Regis Vidal: il principe della plastica

Art is a dirty job di Vanessa Sorrentino


Ho un appuntamento con Regis-R Vidal nel suo studio ad Aubervilliers, un piccolo comune nella prima periferia di Parigi. Prima di partire mi annoto i passaggi più divertenti della sua biografia: Regis-R nasce nel 1973 in piena crisi petrolifera. Dal 1976 al 1980 gioca con i Lego e la Playmobil. Nel 1982 i suoi genitori gli regalano un coltellino con cui si fabbrica dei giocattoli in legno. Al 1987 risale la sua prima creazione: una lampada costruita con una bottiglia della Coca Cola. Tra il 1991 à 1993 studia Architettura a Bordeaux e crea le sue prime opere basate sul recupero. Nel 1994 entra nell'Ecole Nationale des Arts Décoratifs di Parigi.


Continua la sua ricerca e la plastica diventa il suo materiale preferito. Nel 1999 si stabilisce a Montreuil in un atelier, dove nasce la sua passione per la musica elettronica, per i viaggi in Vespa. Sono le 17 arrivo in Rue Casanova, suono il campanello, Regis mi apre, attraversiamo un cortile su cui si affacciano diversi studi di artisti e brocanteurs, rigattieri dediti al restauro di vecchi oggetti. Entrando nel suo laboratorio la prima impressione è quella di precipitare nel regno incantato di una discarica, ma a poco a poco dietro l’apparente caos si intuisce la sua cura nell’ordinare ogni oggetto e materiale di recupero. Gomme di bicicletta, filtri di sigaretta, taniche e bottiglie di plastica, ritagli di legno come belle addormentate se ne stanno ad aspettare il bacio del principe che le risveglierà. Regis ama farsi chiamare così, The prince of plastic, proprio per questa sua capacità di resuscitare gli scarti della nostra società e trasformarli in opere d’arte colorate, intelligenti e ironiche.

La R di Regis-R si riferisce al riciclo?
La R all’inizio era una ripetizione megalomane dell’iniziale del mio nome, certamente ci si può anche trovare un richiamo alla mia pratica artistica fondata sul riciclo e sul recupero, ma è una R aperta…un mio amico ama dire che è la R di Raw che in inglese significa selvaggio. Io amo l’idea che questa R dica quello che si vuole farle dire, una R libera a tutte le interpretazioni.

Come hai deciso di lavorare, recuperando i materiali di scarto?
Mi piace assemblare materiali di diverso tipo, ma soprattutto materiali poveri. È economico, ecologico e legato all'interiorità, per la creazione è interessante.

Perchè utilizzi soprattutto la plastica? Io uso molta plastica, in effetti c'è una possibilità di scelta molto vasta per questo tipo di materiale. È estremamente facile da trovare e se ne possono raccogliere quantità enormi. Noi apparteniamo a una generazione, che ha conosciuto sin dall'infanzia la plastica, a cominciare dai giocattoli.


Qual è il processo che ti conduce alla creazione di un’opera?
Ora, a seconda di quello che voglio dire e rappresentare, prima di tutto faccio dei disegni, degli schizzi preparatori, poi realizzo dei modellini e da quelli realizzo le opere in grande. Tempo fa non facevo questo lavoro di preparazione. Penso alla fine che sia meglio, che sia più efficace, perchè con il disegno tu puoi sapere prima se una cosa funziona o no. È anche il modo migliore di comunicare agli altri cosa hai in mente. Di solito io non lavoro solo, ma con un’equipe di artisti o studenti che possono andare da uno fino a dieci persone.

Qual è, tra le opere che hai realizzato, quella che hai amato di più ?
L’opera che attualmente amo di piu’ e di cui mi sto ancora occupando è la mia macchina. La sto trasformando in un’opera d’arte in movimento.

E la più riuscita ?
Senz’altro è ARTuro, lo scheletro è l’opera che ha ottenuto più consensi da parte del pubblico, quella che ha suscitato più interesse e curiosità.


Perché ARTuro ha avuto così tanto successo?
Io penso che ha avuto successo per tre ragioni:
Per la sua misura gigantesca (10 metri di altezza) e per l’impatto visivo che ne consegue.
Per il tema che questa opera evoca, un tema universale, quello della morte che può essere avvicinato alle vanità dell’arte occidentale che invitavano a meditare sulla natura precaria della vita umana.
Per i diversi modi in cui posso presentarlo…io lo utilizzo come una bambola, una Barbie, cambio i suoi accessori a seconda del tema che voglio evocare.
Nell’installazione The party is over ARTuro parlava di potere e di ricchezza. L’immagine era quella di uno scheletro che gozzovigliava come nei festini da fine Impero Romano. Sdraiato se la godeva, mangiando il suo grappolo d’uva, mentre da un baule uscivano ricchezze guadagnate con la violenza, rappresentata dalle pistole e dal kalashnicov.

Quali sono i tuoi artisti preferiti del passato e contemporanei?
Amo Wharol per la sua riflessione sulla produzione di opere d’arte in serie, per i suoi colori e la pertinenza dei suoi temi. Basquiat per la sua libertà d’espressione, il suo istinto creativo, i suoi colori, l’aspetto graffiti delle sue opere. Amo Tinguely per la sua ingegnosità e la sua creatività così come per la poesia che si sprigiona dai suoi assemblaggi in movimento. Amo inoltre molto le installazioni di Damian Ortega che trovo molto intelligenti, precise e raffinate. Mi piacciono tantissimo anche gli artisti della musica. Trovo in essa una fonte d'ispirazione. Adoro in particolare la musica elettronica, i Chemical Brothers: li ho visti in concerto e vorrei realizzare una scenografia per i loro spettacoli.

Da cosa nasce la tua passione per i murales e per le installazioni sulla strada?
Adoro fare opere per lo spazio pubblico, poiché queste sono offerte ai passanti, è un tentativo di democratizzazione dell’arte. Inoltre mi interessa perché io mi considero un artista popolare, infatti cerco sempre di raggiungere il più grande numero di persone aldilà delle culture, delle classi sociali, dell’età etc.

In quali spazi immagini le tue opere future ?
Vedo bene le mie opere collocate nei musei e come installazioni in esterno in special modo sulla strada. Io amo lavorare sulla strada, fra qualche settimana dovrò recarmi a Londra perché mi è stata commissionata un’opera murale.




Ci puoi parlare dell’opera che hai presentato al museo municipale di Oyonnax?
Ho presentato un’installazione che si chiama Plastic city. Si tratta di una città in miniatura che si sviluppa su un muro, composta unicamente di materiali di recupero. La città si vede dall’alto, come se fossimo in aereo. Trovo che i paesaggi visti dall’aereo siano magnifici.

Nel 2011 hai realizzato appositamente per il Centre Pompidou, Back to the caves, un antro nel quale proponevi laboratori per adolescenti, ce ne parli?
L’idea era quella di ricostruire una grotta, un bozzolo nello spazio quadrato e asettico del museo. Si trattava di un’installazione site specific, realizzata questa volta essenzialemente in legno. Un’opera totale nella quale il pubblico si trovava immerso. Si trattava di un enorme patchwork di legno, che si sviluppava su una superficie di più di 100 metri quadrati (pavimento e muri compresi). All’interno di questo spazio tenevo laboratori rivolti agli adolescenti sul riciclo artistico.

Quali sono I tuoi progetti per il futuro?
Vorrei dare alle mie creazioni una visibilità mondiale, creare una collezione di mobili in plastica riciclata, costruire la scenografia per i concerti dei Chemical Brothers, lavorare con Terry Gilliam, realizzare le decorazioni natalizie della Casa Bianca, ma soprattutto voglio andare a vivere in Brasile.

Perché proprio in Brasile?
Io sono un fan dell’America del sud e il Brasile mi sembra essere il Paese più evoluto in termini di cultura. Possiede una sua identità specialmente per quanto riguarda la scena artistica (musica, design, graffiti, arti plastiche etc.). In più mi sembra che laggiù ci sia, molto più che in Europa, una sensibilità per il riciclo e il recupero (fratelli Campana, Vik Muniz).

Puoi regalarmi una frase di chiusura dell’articolo, una citazione che tu ami e che rappresenta la tua filosofia di vita?
Se tutto è illusione, scegliamo le più belle!

Grazie.

In uscita a Ottobre 2012 sul numero di Dada dedicato a Keith Haring




martedì 12 aprile 2011


Nelle parole come a casa




“Magda Lemonnier ritaglia parole dai giornali, parole di tutte le misure e le conserva in alcune scatole. Nella scatola rosa conserva le parole di rabbia. Nella scatola verde le parole d’amore. Nella scatola azzurra le parole neutrali. Nella scatola gialla le parole tristi. Nella scatola trasparente conserva le parole magiche. Talvolta lei apre le scatole e le rovescia sul tavolo, affinché le parole si mescolino a casaccio. Allora, le parole le raccontano quanto accade e le annunciano quanto accadrà” (Parole in cammino di Eduardo Galeano). Questa piccola storia di Galeano mi ha ricordato molto da vicino il legame che Angeliki Drossaki intrattiene con le parole. Entrando nel suo laboratorio si trovano lettere dappertutto, riposte in scatole, cassetti, casse tipografiche, allegramente sparse sul tavolo dove lavora. Queste poi si accostano disinvolte a comporre parole. Sembra che tutto accada per effetto di una forza misteriosa. Parole amorose, ribelli, furibonde, tristi, dimenticate o cariche di speranza prendono forma dai caratteri tipografici e marcano un’impronta delicata sull’arrendevole argilla. Angeliki assiste al prodigio e intepreta quei segni, vi legge una sottile rete di significati. E poi pesca nel mare della tradizione, in quelle frasi e proverbi che abbiamo sentito dai nonni e dalle nonne, mettendone a repentaglio il significato. Gioca, cambiando una o più parole, et voilà, ecco la sorpresa. Calembours, giochi di parole per dare un vestito nuovo e personale a detti antichi. Se è vero che l’arte nasce dall’urgenza di fermare il tempo, nel suo fare arte Angeliki torna alle origini. Ferma il tempo in frammenti di argilla, come i primi scriba della storia umana che scavavano pittogrammi e alfabeti su tavolette di terra cruda. O come gli antichi abitanti di Festo a Creta, da cui abbiamo ereditato un indecifrabile disco di argilla. Una spirale di simboli impressi con piccoli timbri, che si dice sia il primo documento a stampa con caratteri mobili della storia umana. Fermare il mondo in continua trasformazione e tramandarlo, questo è lo scopo di chi scrive. Aprire scatole e rovesciare sul tavolo parole, giocare d’azzardo fino a sfiorare il non sense, il gioco, perché in esso c’è sempre un fondo di verità. Grazie ad esso i significati nascosti possono venire alla luce proprio come in un ritrovamento archeologico. Angeliki compie un viaggio à rebours, a partire dagli elementi minimi del linguaggio, la parola o addirittura la singola lettera. Un infinito gioco di combinazioni e di intrecci per ordire una personale sintassi della superficie. Lettere che si intrecciano, si sovrappongono e si impastano agli smalti, dando luogo ad aeree composizioni dai colori caldi. Parole isolate in piccole tessere d’argilla e tessute poi tra loro in trame, dove l’andamento lineare della lettura viene messo in discussione. Piuttosto l’occhio dell’osservatore è chiamato a muoversi liberamente sul tessuto di parole, cercando le varie possibilità combinatorie e il significato che in esse si cela. Tessuti d’argilla che diventano testi da leggere e non è un caso che la parola ‘tessere’, che indica l’azione del fare una stoffa, intrecciando i fili dell’ordito e della trama, abbia la stessa radice di ‘testo’, che letteralmente significa proprio tessuto. E a questo rimandano anche le impronte leggere di pizzo, con cui Angeliki crea piccoli regni calligrafici e tramanda insieme la memoria di un gesto ancestrale, quello del ricamare e del tessere.


Presentazione catalogo Dum scribo spero - l'arte della scrittura e la scrittura nell'arte ceramica di Angeliki Drossaki

venerdì 17 dicembre 2010

Storie da guardare e da toccare


Sabato 11 dicembre 2010 a Russi (Ra) è stata inagurata la XVI edizione del corcorso
“Libri Mai Mai Visti”: una festa per gli occhi fatta di libri e oggetti ricchi di inventiva e perizia tecnica. La mostra, promossa dall’associazione Vaca, ospita le opere di artisti provenienti da ogni parte d’Italia e da alcuni Paesi stranieri. Io e Carlotta abbiamo partecipato al concorso con la valigia dei racconti: “Kamishibai per una bambina rosa" che ha ricevuto una segnalazione al Merito. La mostra, che si tiene a Russi (Ra), resterà aperta fino al 21 gennaio;
per informazioni sui giorni e orari di apertura visitate il link:

http://www.comune.russi.ra.it/Notizie-in-Primo-Piano/Storie-da-guardare-e-da-toccare

venerdì 3 dicembre 2010














La notte accende i sensi


con pupille di civetta scruta.


In rintocchi di nero


cresce alberi di silenzio.


Non crede alle folle


preferisce la solitudine


lo scricchiolio delle assi


nell'assestarsi del cuore.


La notte, questa sconosciuta,


come un'amica giunta da lontano


preme le dita sul collo


cuce pensieri chiari


sul tessuto del giorno.

Ginnico e celeste: l'arte a manovella di Francesco Bocchini

Francesco Bocchini viene alla luce a Cesena nel 1969. Vive e lavora a S. Angelo di Gatteo, tra Gambettola e Cesena. L’ho incontrato nel suo laboratorio, una vera e propria officina, traboccante di oggetti ordinati con stile e cura. Mi è sembrato di entrare nella bottega di un artista rinascimentale capace di una grande intimità con la materia che lavora. Il suo regno è quello delle lamiere e della latta, che nelle sue mani si trasformano per dare vita a macchine colme di poesia e pensiero. Se a prima vista infatti i suoi macchinari possono sembrare innocui e graziosi giocattoli, a una lettura più attenta rivelano tutta la loro insofferenza per un mondo dominato dalla tecnologia.













Francesco Bocchini, L’ermellino della regina- 2010, cm. 42x62x19 olio su lamiera di ferro, meccanismo a parete

Il tuo laboratorio si trova a Gambettola, la patria dei ferrivecchi. Per realizzare le tue opere utilizzi scarti di lamiera e di latta. Come è avvenuto l’incontro con questo materiale e perché l’hai scelto come tuo fedele compagno?

Non so se sia stata una scelta, essendo nato qui. Devo dire che negli ultimi tempi la situazione a Gambettola è cambiata. Una volta era più facile trovare materiale, c’erano tanti piccoli demolitori che recuperavano le latte dietro casa. Adesso c’è un Consorzio che rende tutto più difficile, nel senso che c’è più controllo. I materiali poi li trovo comunque magari in Danimarca, in Germania. Immagino poi Paesi come la Cina, l’India o i Paesi dell’ex blocco sovietico, lì dev’essere pieno di cartelli pubblicitari della vecchia scuola...saranno bellissimi. Una volta ho trovato un cartello sbiadito, qui da noi, si leggeva una freccia poi una O e una E, sembrava un rebus…molto interessante! Comunque adesso uso soprattutto le capotte delle macchine.

Le macchine che costruisci sono ribelli. Quando giri la manovella compiono movimenti sussultori e sgrammaticati. Non compiono il loro dovere di macchine e cioè servire a uno scopo pratico. Guardandole mi vengono in mente Le macchine inutili di Bruno Munari, marchingegni che paradossalmente non servono a nulla…

Sarebbe un guaio se non ci fossero queste macchine, perché è vero non servono a niente, ma in realtà possono servire a tanto. È il discorso dell’arte. L’arte in sé non serve a niente, ma nel profondo invece è fondamentale. È segno di una conquista da parte dell’uomo, permette di vedere cose che altre discipline, come la scienza, non sono interessate a ricercare. Poter lavorare anche con l’immaginazione…non la trovi una materia così, che ti dice: “lavora con l’immaginazione, vai a trovare qualcosa che non c’è, che non esiste”.













Francesco Bocchini, Un fannullone vestito di rosso - 2010, cm. 10x32x14 olio e stampa su lamiera di ferro, meccanismo a parete

In queste opere c’è anche una parodia, una presa in giro della cosiddetta civiltà delle macchine, cioè del presunto dominio delle macchine sull’uomo?

Beh sì, una volta si vedeva attraverso la macchina l’emancipazione dell’uomo. Si pensava fino agli anni ’60 che la macchina avrebbe fatto il lavoro dell’uomo e l’uomo avrebbe goduto i frutti di questa liberazione. In realtà il grande fallimento è stato proprio questo. Se tu pensi al luddismo, alla fine del ‘700, alla sua lungimiranza. Gli operai manomettevano le macchine per protestare. Le sentivano come una minaccia al valore di quello che facevano e in effetti le macchine provocarono tassi altissimi di disoccupazione e la diminuzione dei salari. Questo è di sicuro un altro aspetto del mio lavoro, un discorso che si apre su temi legati alla società.

Che cosa hai ereditato dello spirito Dada? Che cosa ti parla ancora della loro arte?

Io ho un amore sconfinato per il Dadaismo. Innanzitutto è nato in un modo stupendo. A cominciare dal loro manifesto, la scelta di quella parola, dada, che non doveva significare niente, però poteva avere tanti significati. Allora c’era chi diceva che Dada era la tata, chi invece pensava che nel linguaggio dei bambini fosse il cavallo a dondolo.
L’idea che animava gli artisti era fortissima, perché Dada doveva arrivare fino al paradosso di distruggere se stesso. Non doveva esserci nessun principio dogmatico. Secondo me quello è stato uno degli apici della storia dell’arte e del pensiero in generale. Poi i dadaisti hanno introdotto tanti elementi nuovi all’interno dell’arte. Innanzitutto il fatto di porre l’attenzione verso tutto ciò che non era considerato artistico. Ecco perché si interessavano a tutto ciò che li circondava, dal fatto politico, al fatto di costume, al teatro, alla poesia…cercavano di mettere tutto insieme.

Qual è il ruolo dell’artista oggi secondo te?
L’artista oggi purtroppo ha perso centralità. Una volta scriveva, interveniva nei dibatiiti, prendeva posizione. Adesso è diventato colui che costruisce le sue cose in studio e basta. Non parla, non si confronta con gli altri artisti, non esprime opinioni per paura di scontentare qualcuno.

A proposito di pensiero, mi ha colpito una tua installazione che si intitola La forza del loro pensiero, ce ne puoi parlare?

La forza del loro pensiero è un lavoro sugli anarchici. Su una scaffalatura è disposta una lunga fila di bottiglie. Su ogni bottiglia c’è scritto il nome di un anarchico. Siccome i pensatori anarchici non sono per niente conosciuti - sebbene il loro contributo sia stato decisivo - ho voluto dedicargli questo lavoro. Allora mi piaceva abbinare all’idea della bottiglia, che è un oggetto che si presta alla classificazione, il nome di un anarchico. Come in una parata di fantasmi della storia, l’etichetta stava ad indicare qualcosa di immateriale: i loro pensieri, le loro utopie. Pensa, che a un certo punto l’installazione voleva comprarla la Gancia. Poi quando li ho incontrati, ho detto: “volete metterla in esposizione all’entrata?! Bene son contento, questi son tutti anarchici!”. Non l’hanno più presa. Poi, fortunatamente, l’ha acquistata un collezionista di Milano. Bene, son proprio soddisfatto, che sia andata così!












Francesco Bocchini, La forza del loro pensiero- 2004, ferro, vetro, colori a olio


Breve biografia
Francesco Bocchini è nato a Cesena nel 1969. Vive e lavora a Gambettola (FC). Ha esposto a Roma, Milano, Modena, Vienna, Colonia, Francoforte. Dal 1992 al 1995 lavora con il Teatro Valdoca di Cesena. Nel 1998, durante un lungo periodo in Danimarca, realizza un'installazione per Infinito con due compagnie italo danesi, Rio Rose e Bjorn Theatre. Nel 2001, con la compagnia Deicalciteatro a Bologna, realizza le macchine sceniche per Lombroso-Amleto, Trittico del volto e No ordinary chill.Tra le sue mostre personali ricordiamo Tutti vivi, tutti morti, tutti rivivi, tutti rimorti (2010 - Andrea Arte Contemporanea, Vicenza); Un braccio ruminante ( 2009 - Galleria Il segno, Roma); Gloriette (2007 - Galleria L’Affiche, Milano); Bulgarico (2004- Galleria L’Affiche, Milano).


Intervista in esclusiva per Dada - rivista d'arte per ragazzi